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Gli attuali tentativi di contenere l’effetto serra sono sufficienti a garantirci un futuro migliore?

 

La domanda non è retorica, ma una necessità urgente di riflessione. Come dice l’ormai celebre espressione: “The road to climate hell is paved with good intentions”. Dal Protocollo di Kyoto del 1997 fino all’Accordo di Parigi, abbiamo accumulato dichiarazioni ambiziose e impegni formali, ma i risultati restano ben al di sotto delle aspettative. Nonostante i molti accordi internazionali per la riduzione dei gas serra, i dati scientifici continuano a confermare che ci stiamo addentrando sempre più nella zona rossa.

Il tempo, purtroppo, non gioca a nostro favore. Con l’Accordo di Parigi ci siamo impegnati a ridurre le emissioni di gas serra almeno del 40% entro il 2030, e nel 2021 l’Unione Europea ha stabilito l’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette entro il 2050, rendendo questo impegno giuridicamente vincolante. È senza dubbio un passo avanti significativo. Tuttavia, per evitare conseguenze irreversibili, dovremmo ridurre le emissioni di circa il 7% ogni anno da qui in avanti. Questo implica trasformazioni radicali: un ripensamento globale degli investimenti, dei consumi e della gestione delle risorse del pianeta.

Il Mediterraneo: un hotspot per i cambiamenti climatici

Tra le aree più vulnerabili al riscaldamento globale c’è il Mediterraneo, considerato un vero e proprio hotspot climatico. Le temperature delle sue acque stanno aumentando a un ritmo triplo rispetto alla media oceanica, rendendo questo mare particolarmente esposto agli effetti del cambiamento climatico. Le conseguenze sono già visibili e destinate a peggiorare: eventi meteorologici estremi, mortalità di massa di organismi marini, proliferazione di specie aliene e patogeni, oltre a impatti devastanti sulla pesca e l’acquacoltura.

Uno dei fenomeni più macroscopici è l’invasione di specie aliene. Con oltre 1.000 specie introdotte – di cui più del 70% ha stabilito popolazioni permanenti – il Mediterraneo è oggi il mare più invaso al mondo. Il numero di specie ittiche introdotte, ad esempio, è più che raddoppiato negli ultimi vent’anni, passando da circa 90 agli inizi degli anni 2000 a oltre 230 oggi. Questo fenomeno non è attribuibile esclusivamente al riscaldamento globale: globalizzazione, traffici navali, acque di zavorra, maricoltura e altre attività umane continuano a introdurre nuove specie, mentre il riscaldamento e l’aumento della salinità favoriscono l’espansione di quelle tropicali.

Gli effetti della tropicalizzazione

La tropicalizzazione del Mediterraneo ha molteplici implicazioni, sia sugli ecosistemi marini che sulle economie locali. Le specie tropicali avanzano, mentre quelle native, tipiche di un mare temperato, si riducono o scompaiono. Ad esempio, i pesci coniglio, presenti nelle acque italiane da circa vent’anni, sono erbivori estremamente efficienti che, in presenza di popolazioni abbondanti, possono eliminare la copertura algale dei fondi rocciosi, alterando interi habitat. Cambiamenti nella rete trofica e nel funzionamento dell’ecosistema sono inevitabili, ma alcune di queste nuove specie potrebbero essere sfruttate commercialmente, offrendo opportunità per la pesca.

Cosa possiamo fare come cittadini?

Osservare il fenomeno è già un primo passo importante. Negli ultimi vent’anni, grazie alla collaborazione tra biologi marini, pescatori, subacquei e appassionati, sono stati creati sistemi per condividere osservazioni sulle nuove introduzioni e sulla diffusione delle specie aliene. I social network, in particolare, si sono rivelati uno strumento formidabile per il monitoraggio. Ad esempio, il gruppo Facebook Oddfish, gestito dal CNR, raccoglie segnalazioni di specie aliene in Mediterraneo, molte delle quali mai documentate prima. Invitiamo tutti a partecipare: documentare questi cambiamenti non solo arricchisce la conoscenza collettiva, ma contribuisce anche a costruire strategie migliori per affrontare il problema.

Gli attuali tentativi di contenere l’effetto serra saranno sufficienti? Forse sì, ma solo se saranno accompagnati da un’azione più incisiva, rapida e globale. Il tempo stringe e il Mediterraneo, con la sua fragilità, ci ricorda che l’indifferenza non è più un’opzione.

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